Note di regia di Marco Spada: Marino Faliero

26 SETTEMBRE 08

Facebook Twitter Posta elettronica WhatsApp Telegram
Poi la laguna, sposa gelosa
del decapitato Faliero,
gonfiò le sue onde spumeggianti
che afferrarono gli amanti come braccia gigantesche
e li trascinarono nell´abisso senza fondo.

E.T.A Hoffmann – Marin Faliero

Nel ricco catalogo donizettiano, Marino Faliero, occupa un posto particolare. Non appartiene al nucleo delle opere fortunate, e tanto meno a quello ristretto delle ´evergreen´, che portano il nome del compositore nel mondo. Si tiene, diremmo, in una nicchia di rispetto e ammirazione, suffragate dalle periodiche ´riscoperte´ e nutrite da eventi esterni che hanno legato il nome dell´opera al mito.

Il primo è la sua nascita, accompagnata da una serie di condizioni eccezionali: l´invito a Parigi da parte di Rossini e la sua fondamentale supervisione alla partitura, il debutto al Théatre Italien, il duello ´a distanza´ con il rivale di sempre, Bellini, ancora ignaro di lasciare con I Puritani il suo testamento, la scrittura vocale per il quartetto di stelle scritturate per la Stagione 1835, che battezzarono le prime di entrambe le opere: Lablache, Tamburini, Rubini e la Grisi.
Il secondo fu addirittura l´analisi storico-musicologica, assai rara per quei tempi, che Giuseppe Mazzini fece nella sua ´Filosofia della Musica´, giungendo a preconizzare, nel 1836, la necessità di un´ ´opera dell´avvenire´, che egli identificò appunto nel Marino e, tout court, nel suo compositore. Sappiamo che le cose andarono diversamente, e che Verdi fu, nel bene e nel male, incaricato poi dalla Storia, di rappresentare l´uomo/artista del Risorgimento.
Ma cosa spinse Mazzini a vedere nel Marino, e non nei Puritani, l´opera ´nuova´? Certamente il soggetto fece la sua parte: un Doge che si fa capopopolo di una rivolta plebea contro la nobiltà, doveva esercitare il suo fascino nell´Italia dei moti rivoluzionari. Poco importa che i termini della questione fossero capovolti, e i fatti abbiano dato ragione al Governo della Serenissima, che ha garantito la sopravvivenza della Repubblica almeno per altri quattrocento anni. Nell´opera di Donizetti, appoggiata al macchinoso libretto di Bidera e Ruffini, il Doge non è un despota in odore di tirannia, ma una vittima dei soprusi dei nobili, per motivi pubblici e privati.

La ´pietas´ degli autori, e del pubblico, è tutta per lui, in particolare nel breve ma intenso monologo che lo isola nel contesto della festa da Leoni, nel quale Faliero definisce se stesso ´uno schiavo´ della Repubblica. La decapitazione del Doge è dunque presentata come un atto ingiusto, come quella di Anna Bolena, ma che eleva per sempre il suo protagonista nella sfera degli eroi.
E´ un atto atteso, verso il quale tutta quest´opera ´scomoda´, tende inesorabilmente dall´inizio.
Tuttavia ritengo che il marchio più autentico e interessante del Marino, la novità che si percepì anche allora, nonostante le accoglienze tiepide, sia la sua urgenza drammaturgica, e il suo consequenziale sperimentalismo formale. Basti vedere come viene spostato il baricentro nella gerarchia dei ruoli vocali: Bellini aveva puntato tutto su soprano e tenore; Donizetti sul basso, il Doge, e il baritono, il suo complice Israele Bertucci, il personaggio forse più complesso e interessante. Scuro contro chiaro, dunque, cupo contro brillante. Ad Elena, non si concede né l´onore dell´aria di sortita né quello della scena finale. La sua grande Aria è collocata all´inizio del Terzo Atto, il finale le elargisce solo una battuta di recitativo. Uguale sorte spetta al tenore: due imponenti numeri chiusi, di alta qualità musicale, che si percepiscono come puramente accessori e dilatatori del tempo teatrale, e una morte che lo toglie di mezzo rapidamente in una azione che non lo ha visto mai protagonista.

La concessione all´edonismo romantico si ferma qui, fatta eccezione per la ´Barcarola´, del Gondoliere, a ben vedere l´unico vero ´tema´ dell´opera che si trattenga nella memoria, per la gioia dei melomani di cui riempie le antologie pianistiche da suonare in casa.

Nel Marino Donizetti sembra compiere quasi una sistematica opera di scarnificazione del ´bello ideale´, al limite, oserei dire, del masochistico. Non scrive temi memorabili, non si bea di introduzioni ´4+4´ che preparino l´attacco dei Duetti. E´ ruvido con i suoi personaggi come essi lo sono con loro stessi, gravati da sensi di colpa troppo forti per essere sublimati. La musica che mette loro addosso è sempre necessaria e totalmente al servizio dell´azione.

La modernità del Marino risiede in questa urgenza comunicativa, che si connota in una cupezza di fondo. La luce brillante del giorno è estromessa, così come il colore brillante della voce del soprano nel Secondo Atto, l´atto della congiura notturna, dove compaiono solo uomini. E´ opera di buio e nel buio. L´unica luce, livida, sarà quella dell´´alba tragica´ della decapitazione del Doge.
Una ´notte terribile, notte di morte´, per citare la Semiramide rossiniana, in cui si consuma tutto: l´offesa, il complotto, il fallimento. E questa rapidità è altro segno identificativo del Marino Faliero. Gli eventi, che per necessità, sembrano avvicendarsi ordinati e conseguenti come in un romanzo, sono a ben vedere tutti contemporanei: mentre Israele viene offeso da Steno, Fernando ed Elena si incontrano; mentre il Doge emana la condanna di Steno, la festa di Leoni, dove si prepara il controcomplotto è già in preparativi. Mentre i congiurati sono in Piazza SS. Giovanni e Paolo, il delatore è già all´opera. Mentre Elena dorme, Fernando muore. Poche ore. Dal crepuscolo all´Arsenale, all´alba nel Salone del Consiglio dei Dieci, gli eventi si consumano con una rapidità insolita nel melodramma dell´epoca.
Pur nell´ambito di una discontinuità qualitativa, atmosfere singolari e brucianti danno al Marino una cifra e un fascino unici, stimolando la ricerca di un immaginario scenico speciale e tutto suo. Le suggestioni coloristiche classiche di Venezia (qui, è bene ricordarlo, una Venezia tardo bizantina e medievale) spesso oleografiche e sovrabbondanti, ora si fanno stilizzate, astratte, non illustrano ma suggeriscono. Acqua, luce, notte, cielo, lampi, feste, non sono più paesaggio esteriore, ma diventano specchio fedele dei turbamenti dei protagonisti. Così il ´caldo´ delle passioni inconfessabili, si dipana nel ´freddo´ oggettivo e indifferente del luogo dell´azione: un ideale ´circolo orchestrale´ di greca memoria, che suggerisce la pianta della città in forma ellittica, è il non-luogo di rappresentazione per eccellenza dove le ´dramatis personae´ non creano, ma subiscono piuttosto gli eventi che il Destino ha assegnato loro. Il melodramma romantico lascia forse per sempre l´ingenuità delle tinte pastello e si carica di una visione pessimistica della Storia che non permette redenzione ai suoi protagonisti.

L'opera

Marino Faliero

Marino Faliero

Intrecci di amore e potere nella Venezia del Trecento: in questa atmosfera si apre la Stagione lirica 2008 con Marino Faliero, una delle opere meno eseguite di Gaetano Donizetti. Tratto...

Notizie, eventi, recensioni, rassegna stampa e promozioni delle rappresentazioni.

Articoli